Per la prima parte si veda questo articolo apparso su Il mondo odierno delle arti grafiche.
Il mio pezzo vuole essere un naturate proseguio di quello, o un commento, a partire dalla famosa foto pubblicata di seguito.
Naturalmente il merito non è tutto mio, ma lo devo ad un precedente dialogo (un certo prof. di Semiotica sarebbe assai contento) con un altro prof. –spesso citato– di Fotografia.
Hyères, France, 1932
Immaginate.
Quella mattina vi siete alzati presto, avete in mente di fare un bel giro.
State camminando per strada già da un po’, siete tranquilli, quando ad un tratto arrivate in un punto in cui la stradina lastricata curva leggermente verso sinistra. In un anfratto tra le case accanto a voi c’è una scaletta contorta e stretta: uno strano, quanto angusto, anfiteatro urbano.
Ad un tratto dalle vostre spalle giunge il rumore familiare di una bicicletta che satella sul pavimento sconnesso.
In fretta vi arrampicate sulla scala; giunti in cima avete appena il tempo di estrarre la macchina fotografica e ritrovare l’inquadratura della foto da voi precedentemente intuita quando avete sentito la bici sopraggiungere: non dovete fare altro che scattare ed imprimerla –quasi eterna– sul negativo.
Riuscite a percepire la familiarità che aveva Henri Cartier-Bresson con la sua macchina fotografica, dopo anni di lavoro? Riuscite ad immedesimarvi in quel momento di pura intuzione del futuro, data dall’esperienza?
Il saper–fare, nutrito della passione e temprato nel fuoco dell’esperienza, nell’esatto istante in cui il fotografo ha sentito il tipico rumore, rasenta l’arte divinatoria e la fotografia ne fa memoria.
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